Ahmad Shah Massoud Ministro della Difesa,
Stato Islamico dell'Afghanistan Questo e' un momento unico e cruciale nella storia dell'Afghanistan e in quella del mondo, un tempo in cui l'Afghanistan ha oltrepassato ancora un altro limite e sta entrando in un nuovo periodo di lotta e resistenza per la propria sopravvivenza come nazione libera e stato indipendente. Ho passato gli ultimi vent'anni, la maggior parte della mia giovinezza e maturita', insieme ai miei compatrioti, al servizio della nazione afgana, combattendo un'ardua battaglia per conservare la nostra liberta', la nostra indipendenza, il nostro diritto all'autodeterminazione e alla dignita'. Gli Afgani hanno combattuto per Dio e per la patria, a volte da soli, altre volte col supporto della comunita' internazionale. Contro tutte le aspettative, noi, ossia
i popoli liberi e gli Afgani, abbiamo arrestato e abbiamo dato scacco
matto all'espansionismo sovietico dieci anni fa. Ma il vigoroso popolo del
mio paese non ha saputo conservare i frutti della vittoria. Al contrario
e' stato spinto in un vortice di intrighi internazionali, inganni,
strapotere dei grandi e lotte intestine. Il nostro paese e il nostro
nobile popolo e' stato brutalizzato, vittima di avidita' mal riposta,
disegni di egemonia e ignoranza. Anche noi afgani abbiamo sbagliato. La
nostra poverta' e' risultato di innocenza politica, inesperienza,
vulnerabilita', vittimismo, liti e personalita' boriose. Ma in nessun caso
questo giustifica quello che alcuni dei nostri cosiddetti alleati nella
Guerra Fredda hanno fatto per minare proprio questa vittoria e scatenare i
loro diabolici piani per distruggere e soggiogare l'Afghanistan.
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L'ULTIMA
INTERVISTA
L'aria era già fredda, benchè fosse solo il 9 di Settembre, sulle montagne ed un vento leggero spazzava il cielo dalle poche nubi. Eppure non era il freddo che sembrava accarezzare con una mano gelida la schiena del comandante Massoud, fin nelle ossa, mentre si inginocchiava a terra per la prima preghiera del mattino. Da giorni ormai il suo umore era cambiato, si sentiva nervoso e preoccupato ed i suoi uomini lo avvertivano e si tenevano a rispettosa distanza, in silenzio. Da quando era tornato dal viaggio in Europa Massoud era, forse per la prima volta in una vita di battaglie, demoralizzato. I suoi appelli per un aiuto da parte dell'occidente nella guerra al regime talebano sembravano essere caduti nel vuoto, l'assemblea di sordi delle Nazioni Unite non aveva lasciato molti dubbi sulla volontà di qualcuno di aiutare la sua lotta ormai disperata. "Non capite che combatto anche per voi!" aveva detto loro, ma nessuno aveva dato l'impressione di ascoltarlo. Eppure il suo sguardo, per un momento, andò ancora al paesaggio della sua valle, quella valle del Panshir che lo aveva visto sempre invincibile, una valle aspra e martoriata, ma che lui trovava così bella. In quella valle aveva resistito e sconfitto i russi tanti anni prima, ed ora era il suo rifugio estremo, ancora una volta. Ma la guerra con l'esercito sovietico era stata un'altra cosa, il nemico era ben visibile ed il popolo unito nel combatterlo, ora tutto era confuso. Intrighi e tradimenti erano all'ordine del giorno tra le tribù afgane e c'era tra i nemici qualcuno assai organizzato e ricco che pagava bene i traditori. Di chi poteva ancora fidarsi? Dei suoi uomini, certo, Tagiki dal cuore impavido e dalla resistenza infinita, uomini che lo adoravano ed amavano sopra ogni cosa. Uomini che lo avrebbero seguito ancora, sempre, nonostante i pochi mezzi e le armi di un'epoca ormai lontana. Finita la preghiera Massud si alzò in piedi, la sua figura non era cambiata negli anni, solo rughe più profonde gli solcavano il viso e nel suo sguardo, forse, la luce della speranza era un po' più fioca. Lui però non poteva arrendersi, lui non si era mai arreso, era il Leone del Panshir, e non lo avrebbe fatto neppure stavolta. C'era qualcosa in più quel giorno che lo disturbava, dei giornalisti, alcuni di loro arabi, forse del Marocco. Massoud non amava le interviste, il suo posto era il campo di battaglia, tra i suoi combattenti, non il palco degli oratori, ma capiva che era necessario mantenere viva la voce della libertà, l'attenzione sul destino di un popolo. Lo aspettavano, ormai da alcune ore, in una stanzetta tra gli alberi, con microfoni e telecamere, ancora un minuto e sarebbe andato da loro. Ancora un minuto per respirare l'aria
fredda dell'autunno afgano, per un ultimo sguardo a quelle montagne, poi a
passo lento Massoud raggiunse le sue guardie del corpo e si incamminò
verso la casa dove lo attendevano. Nella stanza intanto due uomini
preparavano le loro attrezzature, anche nei loro sguardi non c'era luce, e
quella che stavano montando non era una telecamera.
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Teresa Wiltz Valle del Panjshir IL RIPOSO DEL LEONE Gli assassini del comandante dell'Alleanza del Nord hanno ucciso l'uomo, ma la sua memoria sopravvive. Stiamo sferragliando attraverso la campagna disseminata di mine anti-uomo e carcasse di carri sovietici, salutati da adolescenti armati di kalashnikov, non osiamo sbirciare i dirupi rocciosi che attendono solo un colpo di sonno dell'autista. Stiamo cercando un uomo morto, a caccia di un fantasma. Stiamo cercando il Leone del Panjshir, o almeno dove ha trovato riposo. Cercando di capire. In una terra dove la gloria più grande è morire al servizio di Allah, Ahmad Shah Massoud è il martire fra i martiri. Il comandante dell'Alleanza del Nord paragonato a Che Guevara e Bob Dylan, è stato un combattente poeta che per molti incarnava l'unica speranza di pace per un paese devastato da decenni di guerra. In Afghanistan le sue prodezze militari sono leggendarie: ha respinto l'Armata Rossa per nove volte negli anni 80, e impedito la conquista totale del paese da parte dei Taliban negli anni 90. Il 9 Settembre, due giorni prima dell'attacco al pentagono ed alle Torri Gemelle, trovò la sua fine quando aprì il suo quartier generale a due attentatori suicidi camuffati da giornalisti, assassini legati a Bin Laden. Morì pochi giorni dopo all'età di 49 anni lasciando una moglie, 4 figli, e migliaia di compagni piangenti. Questo è il motivo per cui il luogo di questo santuario è chiamato la "Collina dei Martiri". Massoud è letteralmente il sogno dei suoi compatrioti. Dopo la sua morte, il Leone sembra essere ovunque, intessuto nei tappeti, dipinto sulle facciate degli edifici, una figura romantica con un caldo sorriso, occhi dipinti ed un viso roccioso e spigoloso come i picchi dell'Indukush.
Ogni volta che un nuovo murale di Massoud nasce a Kabul, si rinnova l'emozione.Questo è il motivo che ci spinge verso la sua tomba, un santuario nella valle del Panjshir, una regione di una bellezza mozzafiato e di terribili devastazioni. Prima però ci dobbiamo arrivare. Siamo in quattro; un reporter con fotografo, il traduttore afghano e l'autista, tutti e due in lutto per Massoud. Abbiamo guidato per tre ore a Nord est di Kabul, schivando le rocce che ingombrano la strada e rompendo due volte una sospensione prontamente riparata dall'autista. Rocce, rocce, ed ancora rocce, non c'è nient'altro per miglia e miglia. Passiamo cimitero dopo cimitero, dozzine di carri, rugginose carcasse lasciate da dieci anni di guerra con i sovietici, riposano ai lati della strada, cimitero di loro stessi. Passano villaggi con uomini armati al sicuro nelle loro postazioni ai check points. Finalmente raggiungiamo la "Collina dei Comandanti Martiri", dove alla sua sommità, è appollaiato un cadente edificio in mattoni e legno, la tomba di Massoud. Due soldati stanno di guardia in silenzio, e ci guardano. Così come tutta Kabul è tappezzata di immagini di Massoud qui, davanti alla sua tomba, visitata settimanalmente da centinaia di persone, non c'è neanche una immagine del Combattente per la Libertà. Una volta c'erano fotografie in abbondanza, poi un soldato ebbe un sogno in cui Massoud gli chiedeva di togliere le foto, le monete e quant'altro la gente portava. Questa è una terra dove i sogni sono presi molto sul serio. Tutto è stato quindi tolto, è l'unico ornamento per la tomba di Massoud sono i due soldati di guardia. Dentro il mausoleo è buio e freddo; il sole filtra dalle fratture del muro mitigando l'oscurità del luogo. La tomba è un tumulo coperto da un verde sudario di velluto, nessuna scritta, qualcuno ha lasciato una lettera: "Massoud, il grande comandante della Jihad in Afghanistan. Seguiremo la tua via fino alla morte." Nur, il nostro autista, è crollato in ginocchio piangente, mentre l'interprete si raccoglie in preghiera. C'è una calma misteriosa che aleggia attorno al santuario, tale che infonde in tutta la valle un senso di pace che contrasta con questa terra insanguinata. Perfino i due soldati di guardia sembrano emanare tranquillità. All'inizio si rifiutavano di parlare con me. Adesso sono il loro nuovo amico. Ci hanno invitato nella loro casa, un vecchio veicolo russo parcheggiato a pochi metri dal mausoleo. Dentro lo spazio angusto ci accovacciamo su due giacigli, un bidone per bruciare la legna è l'unica fonte di calore. I soldati ci offrono del thè, la dimostrazione afhana di amicizia. Ci mostrano un libro pieno di firme di visitatori giunti da tutto il mondo. Uno dei soldati, Mohammed Negin, trentatreenne di etnia Tajika come Massoud, inizia a parlare del suo eroe: "Era coraggioso, leale, amava l'Afghanistan, proprio come io amo me stesso" dice Negin "ho amato Massoud, non lo dimenticherò mai", Né dimenticherà il giorno dell'assassinio. Negin aveva da poco lasciato la linea del fronte di combattimento contro i Taliban. Un suo compagno era rimasto ferito e Negin lo accompagnava a casa. Quando sentì la notizia della sorte del suo leader ne fù distrutto. Adesso passa i suoi giorni in perpetuo servizio a Massoud. "Prima di morire" dice Negin indicando il mausoleo, "scelse dove voleva essere sepolto". Ci invitano a pranzo, ma a noi interessava più conversare. Osservo un villaggio verso est, una virtuale Shangri-la tascabile tra il fiume e l'Indu-Kush. Cosè quello? Chiedo a Daud. È Jangalak, il villaggio di Massoud. Naturalmente ci voglio arrivare ma, essendo in Afghanistan, questo è un problema. Daud mi avverte che al prossimo check point non ci lasceranno proseguire, perché il nostro lasciapassare vale solo fino alla tomba di Massoud. Ne discutiamo a lungo, ma il nervosismo di Daud non concede replica. Lo preoccupa il disobbedire agli ordini, teme di essere arrestato. Torniamo quindi al check point, dove Daud passa venti minuti a discutere, quando torna verso di noi è accompagnato da una guardia. Possiamo andare a Jangalak, ma solo se scortati. Serve, ci dicono, per la nostra stessa sicurezza. Così giriamo la macchina dirigendosi verso Jangalak passando nuovamente dalla Collina dei Martiri. Siamo a Jangalak, un piccolo e grazioso villaggio dove le case si arrampicano sul fianco della montagna, di fronte ad un panorama spettacolare sulle vette innevate. Il bestiame vaga libero nell'unica polverosa strada e gruppi di bimbi inseguono me e Yola, il nostro fotografo, che nel frattempo osserva ridacchiando le donne senza il burka. Dal loro numero si capisce che questo non è il villaggio di Massoud, ma quello di sua moglie che, si dice, viva in esilio. Ognuno qui, sembra aver conosciuto l'uomo, combattuto con lui. Ese non hanno combattuto con lui, sono stati comunque in relazione con lui, oppure gli hanno semplicemente curato il giardino. Magari lo hanno visto camminare giù nella strada e gli hanno sorriso. C'è Nazbobo, che timidamente si porta il velo sul viso mentre si avvicina ad un negozio addobbato ti foto di Massoud. Ha conosciuto la guerra a dieci anni. "Massoud era un uomo buono, aiutava questo popolo, ha combattuto la Jjihad per Allah" ci dice. Il quarantaduenne Rustem, un viso scolpito nel bronzo, un accademico che abbandonò i libri per combattere insieme a Massoud, ci spiega che ha sì perduto Massuod, ma i martiri non muoiono. Massoud sopravvive nei loro pensieri, nelle loro case, nei loro sogni. Proprio l'altra notte Massoud è apparso in sogno a Rustem, lui lo ha seguito, ed insieme a lui migliaia di altri da tutto il Panjshir. Massoud continuava a camminare, camminare finchè giungeva alla sua tomba. Là si fermava e si voltava verso la folla. "Perché mi state seguendo?" " Abbiamo conquistato la vittoria contro i talibani, non c'è più bisogno che mi seguiate." Ma in questi villaggi nessuno sembra sapere ora dove andare. Diventa travolgente la testimonianza di tutto un popolo, e tutti dicono le stesse cose; "era un uomo buono" "ci amava" "è morto per noi" Penso alle innumerevoli immagini di Massoud il Martire, ma non riesco ancora a trovare l'uomo. Saliamo sulla nostra macchina con il nostro amico armato, tutti impazienti di ripartire; gli abitanti del villaggio ci salutano. Sulla strada del ritorno per Kabul, autocarro dopo autocarro che ci viene incontro va nella direzione della Collina dei Martiri, verso Jangalak. Ognuno di essi ha una fotografia di Massoud sul parabrezza.
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